Monumental sculpture
“THE SUN TOWN” by Luciana Matalon
This sculpture “Città-sole” on which I have been thouroughly working on and following, detail after detail, for two years, has been placed in Netanya, in Israel, as an homage to my mentor, who sadly is not with us anymore. The city of Netanya has dedicated their large square in front of the sea, where my sculpture has been located, to my husband, by naming it “Beniamino Matalon”. Ideologically my sculptures are to be seen as islands at sun down, capable of making us forget the prisons of dull days, islands in which we can collect the insomniac stellar arcipelagus, insomniac as my nights, in which my mind floats towards the impossible oblivium.
My need to make sculpture started 38 to 40 years ago and is part of the three-dimensional aspect of my paintings of the 60’s and 70’s. Back then, my restlessness was looking for something that could break limits and find new dimensions. So I started to furiously attack the first dimension, the canavas/barrier, with cuts and rippings, to let the gesture and the light breakthrough and overpass it’s boundaries. I then divided the canvas in parts by using PVC combustions, and brought the material, soaked in acrilic colors, to it’s limits in order to obtain objects which could conqueror new spaces. I then realized that painting did not satisfy me anymore and sculpture become to me of the utmost importance. My intentions with sculpture were to capture the lightness, the wind and light, the tangled thoughts of our minds, the silences. Sculpture, though, needs material, it requires it. But material means weight, volume, concentration of space. So I attack it, I alter it, I open it, I break it. I practice glifi to search the carverns of the earth for traces of ancient alphabets, drowned in the wrinkles of time. Those are clefts that imprison remote memories, mysterious silences that release fulminating energies. Through these tears I let light and the changing sesons with their multiple colours, penetrate inside the sculpture and breath into shadows and projections, continoulsy diverse one for the other. I also build apses and castles which sit on impossible staircases that can be reached only by climbing steps of poetry.
I am a citizen of the world and I ask for continous changes, so I can feel like a charging battery ready to acknowledge different realities and to expose my mind to new confrontations and verifications. Painting and sculpture means to me a faithful abandonment to my desire to tell, with storming truthfullness and invention, my means are to flee, to confess, to be absolved, to be free to play with my thoughts. If I had to translate and explain the meanings of my signs, cuts, symbols, metaphors, allegories and so on, that are the whispered voice of my work, I would irreparably uncover it’s fascinating ambiguity.
Luciana Matalon
“The Sun Town” (testo di Luciana Matalon) – 2007, Netanya (Israele)
Questa Scultura “Città-sole”, a cui ho lavorato per circa due anni e che ho esasperatamente seguito, dettaglio dopo dettaglio, è stata collocata a Netanya, in Israele, e vuole essere un omaggio a mio marito, che purtroppo non c’è più. Un omaggio al suo desiderio di ritorno alle sue antiche radici, dopo tante dolorose vicissitudini storiche.
La città di Netanya ha dedicato la grande piazza di fronte al mare, in cui è stata collocata la mia scultura “Città-sole”, al nome di mio marito e quindi la piazza si chiama oggi “Piazza Beniamino Matalon”. Ideologicamente la mia scultura vuole essere un’isola serale capace di far dimenticare le prigioni di giorni spenti e in cui adunare astri di arcipelaghi insonni, insonni come le mie notti alla deriva di impossibili oblii.
Il mio bisogno di fare scultura nasce 38/40 anni fa e praticamente parte dalla tridimensionalità della mia pittura degli anni 60/70. A quel tempo, la mia irrequietezza cercava qualcosa di diverso che rappresentasse la rottura di limiti e trovasse nuove dimensioni. Così ho incominciato ad infierire sulla prima dimensione, che era rappresentata dalla tela/barriera, con tagli e lacerazioni, per permettere al gesto e alla luce di andare oltre, di varcare un confine, poi con delle combustioni di PVC ripartivo dalla superficie della tela, esasperavo la materia, intrisa di colori acrilici fino ad ottenere degli aggetti che volevano, a loro volta, sfidare nuovi spazi. Così, mi sono accorta che la pittura non mi bastava più e che era indispensabile per me fare anche sculture. Con la scultura però io avrei voluto scolpire la leggerezza, il vento, la luce, i grovigli del pensiero, i silenzi, ma la scultura vuole la materia, la esige, e la materia è peso, volume, occupazione di spazio. Allora io questa materia l’aggredisco, la altero, la apro, la spacco. Pratico glifi per cercare nelle loro caverne tracce di antichi alfabeti annegati nelle sue rughe, nelle loro rughe del tempo. Anfratti che imprigionano remote memorie, misteriosi silenzi che saettano energie liberatorie. Attraverso queste lacerazioni, permetto alla luce e alle stagioni, con i molteplici colori, di entrare nella scultura e di viverla in ombre e proiezioni sempre diverse e poi, sempre con intendimento poetico, costruisco absidi e castelli appollaiati su scale impossibili, percorribili solo sui gradini della poesia.
Da cittadina del mondo, ho bisogno di spostamenti continui per sentirmi una batteria sotto carica, per attingere conoscenza ed esporre la mia mente a confronti e continue verifiche. Pittura e scultura sono per me un abbandono fiducioso al desiderio di raccontare in una frastornante mescolanza di sincerità, di invenzione, di voglia di stupire, di confessarmi, di assolvermi, di essere libera di giocare a palla con i pensieri, ma, se dovessi tradurre e spiegare le motivazioni dei segni, dei tagli, dei simboli, delle metafore, delle allegorie e quant’altro, che sono la voce sommessa del mio lavoro, compirei una disastrosa operazione di smascheramento della fascinosa ambiguità del loro esistere.
Luciana Matalon
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