Dalle cattedrali dell’inconscio alle archeologie della psiche

Dalle cattedrali dell’inconscio alle archeologie della psiche

Altrove siamo già vissuti, qui stiamo vivendo … a memoria. Sarà forse la nostra reversibilità mutante nei luoghi spazio temporali a renderci più disponibili alle avventure migratorie, almeno da quando abbiamo intrapreso viaggi e soggiorni interplanetari ripercorrendo gli itinerari delle nostre sette intuizioni. Intuizioni o memorie sedimentate e inconsciamente autogestite dentro di noi, fra percezioni e proiezioni di un “eterno ritorno” dell’essere-nel-tempo? Ritorno da un viaggio e prosecuzione nel viaggio, provvisoriamente …

Proviamo a ricordare soltanto qualcosa che affiora, di tanto in tanto, dai nostri recessi interiori fino ad aggallare nella fluida dimensione onirica, libera-mente …
Qui non si tratta di ricordare, ma di ri-vivere al “presente del passato” ciò che l’indistinto, e persino l’indicibile, di un’apparente quanto mai rivelatrice evocazione ci ritorna dopo un lungo attraversamento spazio-temporale, dai sogni ai segni, fin qui dall’altrove. Sempre all’interno di una circolarità di percorso che ricicla gli archetipi delle immagini evocate nell’immaginario, individuale e collettivo, del nostro mutante essere-nel-tempo. Così le immagini della nostra infanzia pre-storica, cioè il repertorio archeologico del sapere perduto, riemergono dalle profondità dei tempi remoti per assecondarci in quel processo di “lunga durata” che coincide con i tempi interiori, affatto soggettivi, del nostro immaginario; soprattutto, l’immaginario che presiede alla dinamica pulsionale e creativa dell’arte: meglio, dall’arte nella vita alla vita nell’arte, specular-mente …

Allora i conti figurativi tornano, dalle immagini all’immaginario e viceversa, in un rapporto bivalente di causa-effetto che soltanto l’arte è in grado di assicurarci “sine die”, senza sottrazioni di senso o di significato, al flusso costante delle analogie che ci rispecchiano ovunque, fuori e dentro, dall’invisibile al visibile, persino al superamento di quei limiti praticabili che la ragione razionale vorrebbe spiegare a tutti i costi, ricondurre alla logica dei ragionamenti induttivi e deduttivi, quando in realtà le intuizioni immaginative (e irrazionali) spesso travalicano i confini del conoscere per accedere alle fonti originarie del sapere. Appunto, il sapere “occulto” dell’immaginario. Ora, poiché l’arte ci consente di rivivere per «come» siamo gia vissuti, è inevitabile orientare le nostre ricognizioni nei luoghi spazio temporali dove l’accaduto potrebbe ancora accadere … All’inizio era la “Figura” … Questo, circa trent’anni fa, era anche l’iniziale discorso pittorico di Luciana Matalon. Ma il suo sguardo era una “finzione”, in senso borgesiano, quasi un pretesto per cogliere dei soggetti referenziali a carattere formativo, sui quali potervisi esercitare durante e appena dopo la frequentazione all’Accademia di Brera. Un’esperienza “in nuce” che la giovane pittrice conduceva per approfondire le tecniche, variare l’ottica della «presa diretta» nella realtà visibile, ma già con l’intendimento di superarne i condizionamenti oggettivi o, meglio, oggettuali. Fingere di guardare, come educazione dello sguardo in prospettiva accelerata, presuppone un’intensità «visionaria» capace di convertire il sentire nel vedere “altro”, mutuando le immagini ricevute dall’esterno all’interno di una propria con-figurazione immaginativa che Matalon, intorno alla metà degli anni ’60, comincia a intravedere in crescita operazionale.

É il momento di incentivare una certa “immaginazione dinamica”, per dirla con Gaston Bachelard, autore di splendide avventure epistemologiche all’interno della natura umana. Infatti: “l’immaginazione dinamica soggiace a una finalità dalla potenza prodigiosa. La freccia umana non vive solo il suo slancio, vive anche il suo bersaglio. Vive il suo cielo. Nel prendere coscienza della propria forza ascensionale, l’essere umano prende coscienza di tutto il suo destino. Più esattamente sa che si tratta di una materia di speranza, di una sostanza che spera. Sembra che in tali immagini la speranza raggiunga il massimo della precisione. Si tratta di un destino diritto. La salita immaginaria è quindi una sintesi di impressioni dinamiche e di immagini”. (Psicanalisi dell’aria, Red edizioni, Como, 1988, p. 53). Arbitrariamente, con questo prestito bachelardiano, possiamo inquadrare gli antecedenti propulsivi di Luciana Matalon nell’ambito, appunto, dell’ “immaginazione dinamica” dove l’accaduto promette di accadere ancora, processual-mente. Prima riflettiamoci nell’immagine suggerita da Bachelard: “La freccia umana non vive solo il suo slancio, vive anche il suo bersaglio”. Poi passiamo, sempre per rifletterci, alle immagini contigue, quasi speculari, che Luciana Matalon viene elaborando a partire dalla seconda metà degli anni ’60. Immagini cosmiche, trattate a tecnica mista con l’impiego di vari materiali, prevalentemente fibre e resine, in rilievo. Grumi, grovigli, fili e reticoli sovrapposti su campiture policrome, sovente addensate in uno spazio “di formazione” che si direbbe altrettanto pervaso di fremiti e sensazioni senza respiro. Memore della lezione di Lucio Fontana, Matalon recupera dallo Spazialismo la “poetica” dello slancio liberatorio, ma per configurarsi nel suo bersaglio conflittuale … Sembra un paradosso eppure, aldilà delle superfici prensili e invitanti, queste immagini riflettono dei drammi cosmici in sospeso, o “in situazione” di emergenza, congruenti alle percezioni inconsce dall’essere abbandonato al tempo pre-natale, dentro la placenta delle origini. Ma questo è anche l’inizio di una ricerca a tutto campo (meglio, a tutto spazio), dal macrocosmo al microcosmo, internamente all’ “immaginazione dinamica” che riproduce per rivivere il sentire nel vedere, anche al richiamo di un’autosuggestione eidetica (facoltà mnemonica fondata sulla percezione visiva}. Così Luciana Matalon “vive il suo cielo”. Il cielo degli agguati e delle tentazioni, delle insidie e delle sublimazioni. Un cielo che rispecchia la costruzione fantasmatica delle proiezioni-percezioni mentali. In questo viluppo di contrazioni cosmiche, esemplate negli spasimi polimaterici, Matalon gestisce il primo ciclo di opere intitolate, emblematicamente, alle “Cattedrali”, partendo dalla “Cattedrale dell’inconscio” (1967) per proseguire con la “Cattedrale nello spazio” (1969).

Spazio e materia, coagulatisi in formazione germinale, ormai possono essere assimilabili ai dati costitutivi di una realtà vissuta in presa diretta, quale sarà appunto quella del 1969 coincidente con il primo sbarco dell’uomo sulla Luna. Riferimento non casuale se nello stesso anno la pittrice realizza, inoltre, “Nascita di un pianeta” e, soprattutto, l’eponimo “Uomo macchina”.

Quindi, dall’inconscio alla coscienza, lo “stato di cose” della contemporaneità evidenzia, visiva-mente, quanto il mondo viene rappresentando: che rientra nelle consuetudini di un nuovo modo di essere” nel vivere la realtà. Non più la realtà degli atterraggi, ma quella degli allunaggi. Dalla terra alla Luna, andata e ritorno. Una realtà, se vogliamo, mutante in sintonia con la natura umana e, a differenza del passato, assai meno spaesante di quanto fosse prevedibile nel circuito delle nostre coordinate spazio temporali. Evidentemente, Luciana Matalon rielabora in proprio ciò che la realtà le suggerisce a presente memoria, reinventando un improbabile “Centro ricerche astrali” (1970) accanto al rivissuto “Viaggio nello spazio” (1970). Ed è sulla base di questi referenti che nella prima metà degli anni ’70 la sua “imagerie” cosmo-logica approda a una serie di opere “sur le motif”, se così possiamo definirle nell’ordine dei prestiti tematici: “foresta cosmica”, “il primo volo”, “alba cosmica”, “foresta astrale”, “solitudine”, “lacerazioni”, ecc. Tutte “riflessioni” aventi un comune denominatore spazialista, comunque sempre variabili alla “messa in opera” dei soggetti, anche dal punto di vista tecnico-espressivo. Materia e memoria o, nel più complesso ambito sinergetico, memoria della materia spazio temporale. Riflessioni come “Archeologie del pensiero”, citando un altro ciclo di lavori che negli anni ’70 e oltre, rappresenta una specie di percorso incrociato con le “Cattedrali” già accennate e i “surreali” “Orologi del tempo”. Questi ultimi, contrassegnati dai volti-orologi con lancette che scandiscono le memorie del tempo, reintroducono nel contesto compositivo una matrice figurale in parte ispirata a Klee e a Brauner, ma che risale a certi esiti precedenti (es. “Paesaggio”, 1963; “Gente”, 1964; “Gestazione”, 1968) nei quali Luciana Matalon aveva tentato di associare all’evocatività delle presenze le perturbazioni inconsce del “sentimento del tempo”. Con ironia, tutto sommato. Non a caso il concetto di “immaginazione dinamica” trova nel decennio ’70 le motivazioni del “recupero” in sintonia con altre ricerche, sempre attinenti alle sperimentazioni tecniche e polimateriche, però assai più funzionali alle “corrispondenze” di senso e significato che soltanto il linguaggio può avallare e definire nelle risultanze, dall’immaginazione intuitiva alla rappresentazione dinamica. In queste alternanze di stati d’animo spesso contraddittori, dall’irrazionalità segnico-gestuale alla riflessività segnico-scritturale, Matalon allarga il campo d’azione operativo per interrogarsi, interrogando il “linguaggio del tempo” sottratto alla latenza delle sedimentazioni archeologiche, e per confrontarsi alI’interno del proprio repertorio tematico. Analogamente ai problemi di linguaggio, ma specificamente contigui al «linguaggio della materia», Luciana Matalon nel contempo si dedica alla scultura, potremmo dire per affinità operative, considerando le molteplici esperienze plastico-pittoriche, dai rilievi aggettanti alla diversificazione dei supporti, quasi sbalzate per catturare luci e ombre o trasparenze affatto trasformabili dai piani bidimensionali alla bifrontalità degli elementi fissi o, in seguito, componibili. Se all’inizio di questa attività “alternativa” possiamo riscontrare qualche analogia tematica, passando dalla “Foresta astrale” (1970) a “Speranza” (1974) e “Noi” (1976), peraltro evidenziata anche in una serie di gioielli, più avanti la scultura viene assumendo un’autonomia di linguaggio del tutto avulsa dai referenti tematici della pittura. Ed è un processo scambievole fra modellazione e modulazione, attraverso il quale l’artista rielabora alcuni prestiti formali “in omaggio” (es. a Marini, Giacometti, Melotti, Calder) ma, soprattutto, in funzione della propria riconoscibilità operativa.

Anche in questo caso, l’ “immaginazione dinamica” agisce a seconda degli impulsi visionari che il binomio materia-memoria promuove, reattiva-mente, nell’artista. Per Luciana Matalon il 1979 è l’anno in cui la dominante sculturale assume una priorità dinamica sull’intero percorso dell’immaginazione creativa; ed è, inoltre, il principio di un nuovo approccio dialogico con il “mondo della figura”. Forse, in chiave psicologica, potremmo parlare di ritorno alla figura dopo un’abluzione (autocoscienza) negli abissi antropologici del mondo. Alcuni esempi chiariscono meglio questa riflessione “ontologica” applicata alle forme plastiche in bronzo. Agli animali dell’ “Urlo” (cavalli) e della “Sfida” (felini) si contrappongono le figure umane dell’ “Esistenza” (uomo nella tela di ragno) e della “Scala della vita” con “Il castello della memoria” che racchiude il senso-reperto dell’esistenza. É sì un dialogo di presenze, aggressive le prime e in attesa di liberazione le seconde, ma è anche un conflitto di assenze determinato dalla perdita di una comune “imago mundi”. In altri termini, la tragedia del vivere “in conflitto” segna l’irreversibile fine dell’armonia archetipica nell’ambito della polarità natura-cultura. L’uomo, dall’essere-nel-tempo al superstite-del-tempo. Ma esiste ancora uno spazio di riflessione compatibile con le strutture antropologiche della nostra civiltà fine secolo e fine millennio? Diciamo che “Dagli scavi della memoria”, come auspica Luciana Matalon intitolando così un ciclo di opere del 1980-84, è possibile convertire al “presente del passato” la polarità natura-cultura per allargare l’orizzonte immaginativo con l’assistenza a temporale di un’altra polarità: materia-memoria. Specularmente, dalla materia alla memoria e dalla memoria alla materia…Ritorni e recuperi, analogie e corrispondenze, riflessioni e interpretazioni sottendono comunque all’intenzionalità di riattivare un processo ciclico che riguarda la natura umana in tutta la sua estensione spazio-temporale, dalle origini al presente, inteso appunto come “presente del passato”. In tal senso vi è un ampio repertorio di provocazioni che scaturiscono “Dagli scavi della memoria”, le cui risonanze si diramano nelle “Cattedrali dell’inconscio” per poi costituire la fluida materia delle “Archeologie del pensiero” e quindi confluire nelle immemorabili “Archeologie della psiche”… Racconti di memorie o memorie di racconti preesistenti a quella che potremmo definire, insieme a Hans Blumenberg, la “leggibilità del mondo”? Leggibilità retrospettiva, ma introflessa in prospettiva quale compendio testimoniale dell’essere-nel-mondo.

Procedendo in tutte le direzioni, sincroniche e diacroniche in profondità e in superficie, Matalon accetta di sottoporsi a una specie di autoanalisi rivelata sia sulle tracce di un vissuto che rappresenta, operativamente, la proprietà umana del “saper evocare” per poter de-scrivere una possibile realtà, accaduta ma rinnovabile, del mondo. Il “suo” (e il nostro) mondo che riemerge “Dagli scavi della memoria” per confluire nel serbatoio “attivo” dell’immaginario, individuale e collettivo, da cogliere in … flagrante. Arriviamo così agli anni ’80; il terzo decennio in cui Luciana Matalon compendia le varie esperienze, conseguite nel continuum di una ricerca ininterrotta, anche nelle discontinuità tematiche, ma intervallata dai passionali flussi e riflussi della propria gestione temperamentale. Ora, se vogliamo rintracciare un filo conduttore in questo “policromaterico” groviglio trentennale, dobbiamo concentrare l’attenzione sui segni-concetti che ricorrono con maggiore frequenza negli ultimi due decenni, attraverso i quali l’artista evidenzia fin dai titoli delle opere le proprietà dei suoi sconfinamenti interiori al “presente del passato”. Si tratta di parole-chiave come inconscio, memoria, mente, psiche; quindi, al di fuori del supporto didascalico, l’area delle corrispondenze simboliche aderisce a un linguaggio della visione affatto sincronico di segni-concetti “in causa” intenzionale. Ne consegue, pertanto, un itinerario piuttosto omogeneo che, indipendentemente dalle tracce tensionali e finanche autotroniche dell’artista, riflette la caparbia ricerca di un “principio d’identità” recuperato a frammenti scavando dentro di se, archeologicamente … Dai segni-concetti alle parole-chiave esiste una profonda convergenza di omologazioni e altrettanto potremmo dire dall’archeologia all’antropologia in rapporto ai “segni” dell’uomo. Segni come scrittura, presenza, testimonianza. Tutto rientra nella circolarità di un processo che ciascuno di noi percepisce, intuitivamente, senza dover spiegare l’inquietante (o gratificante) interrogativo dell’essere-nel-mondo. Così vediamo le immagini e ne siamo coinvolti: il “come” del linguaggio visivo e il “perché” dell’interpretazione possono anche sfuggirci, ma il “feeling” adiacente ad esse è di nostra esclusiva proprietà. Perché nelle immagini abbiamo colto la persistenza dei nostri “segni”, dal vedere al sentire, riemersi dalla latenza del nostro inconscio o affioranti, secondo Matalon, “Dagli abissi della mente” (1980). Segni di antiche scritture oppure tracce di remote migrazioni: “Archeologie del pensiero” (1980-81) contigue alle “Archeologie della psiche” (1984-89). Nei cicli pittorici degli anni ‘80, compositivamente variabili anche nelle costruzioni segnico-geometriche, Luciana Matalon intraprende con maggiore determinazione, almeno rispetto a certe avvisaglie precedenti, una ricerca fondata sui binomio scrittura-immagine. Anzi, si potrebbe considerare questa sua ricognizione nell’area dell’alfabeto ebraico come una vera e propria scrittura-figura, in quanto le proprietà intrinseche costituiscono l’essenza stessa del linguaggio figurativo, non supinamente archeologico come le titolazioni cicliche dichiarano (evocativa-mente) ma in accoglimento propriamente antropologico quale “presente del passato”.

Il tessuto, a tecnica mista e spesso in rilievo, delle immagini corrisponde al lavoro di scavo, già esplicitato “Dagli scavi della memoria” (1980), simulato ponendo a confronto diverse stratificazioni fino a costituire un palinsesto di trasparenze, dove ciò che traspare si disvela all’esplorazione “riflessiva” dell’ottica mentale più che all’azione fisica del vedere mirato. Ed è in questo contesto che la scrittura-figura assume un’importanza prioritaria, sebbene poco appariscente, proprio perché esemplifica il tracciato archetipico di un “racconto” interiorizzato (o introiettato) nella nostra “Archeologia della psiche”. Esemplare a questo proposito è appunto il ciclo “Archeologie della psiche” del 1984 in cui le “variazioni sul tema” evidenziano la dinamica dei richiami antropologici: presenze del vissuto nel vivente, sembianze e impronte umane di un “eterno ritorno” che trattiene il respiro spazio temporale alla configurazione stratigrafica della simbolica testimoniale dell’essere. Miti e leggende, calchi di verità perdute e sinopie di realtà ritrovate. Immagini poetiche che riecheggiano, per appropriazione interpersonale ma in prima persona (dall’artista a ciascuno di noi), un verso-sentenza di T.S. Eliot: “Nel mio principio e la mia fine”. Oppure, “mutatis mutandis”, nella mia fine e il mio principio. Ironicamente … Lavorando su due temi interdipendenti, Luciana Matalon si affida nel contempo a due possibilità di svolgimento ciclico nel corso degli anni ’80: il primo, “Dagli scavi della memoria”, simboleggia nei volti pietrificati (es. alcune opere del 1983-84) la persistente presenza della figura divenuta scrittura visiva, mnemonica, marchiata dal tempo; il secondo, “Archeologie della psiche”, è un controcanto complementare che ribalta la figura nella scrittura per evocare, concettualmente, le stesse presenze in un ambito di percezioni più congruenti alle trasformazioni psichiche, dall’inconscio alla coscienza. Un processo di condensazione che, in entrambi i casi tematici, viene accordandosi con i presupposti formanti dell’ “immaginazione dinamica”. Alla ricezione sinergetica delle immagini. Dalla pittura alla scultura. Nella seconda metà degli anni ’80, insieme alle “Archeologie della psiche”, l’artista riprende e intensifica il rapporto con la scultura. Piccoli bronzetti che memorizzano al ricalco scritturale le archeologie pittoriche, sebbene la diversità d’impronta formale «a tutto tondo» sia da porsi in relazione mobile, variabile a seconda (e in scala maggioritaria) delle caratteristiche spazio-ambientali. Sfere, semisfere, spirali, cerchi, totem e stele. Un repertorio archeologico ma rivitalizzato dal plasma della memoria attiva, operante sul reperto vivente oppure sulle cose della natura (es. gli alberi) quasi per contrarre un patto di mutua assistenza all’insegna (simbolica) dell’umanizzazione testimoniale delle forme. Le forme del pensiero che ri-scopre e disvela la “sostanza” antropologica della nostra realtà immutabile, nonostante tutti gli avvicendamenti storici che abbiamo rimosso. Apparente-mente… Questi bronzetti, in effetti, nascono come progetti di un’utopia realizzabile su scala multipla, anzi monumentale, che potrebbe conferire alle piazze o ai parchi pubblici un valore dinamico di compartecipazione “integrata”, ma non in funzione subalterna, nelle strutture della vita contemporanea. Naturalmente, se gli amministratori pubblici fossero sensibili a certi sollecitanti richiami culturali che riecheggiano dal profondo “habitat” (originario) della nostra civiltà, anziché nascondersi all’ombra dei compromessi rampanti secondo la prassi postmoderna del cosiddetto “arredo urbano”. Il ciclo delle “Stele” (1987), sottili e componibili, lascia intuire una verticalizzazione quasi infinita, di ispirazione brancusiana, o perlomeno una sorta di ierogamia fra cielo e terra alla riflessione speculare delle componenti simboliche. Ancora una volta il binomio scrittura-figura determina il flusso suggestivo degli appelli mnemonici; però l’ascesa non è mai lineare, perché sono gli “intervalli” o i dislivelli di percorso a simulare l’analoga condizione del vivere e la sua stessa ragione d’essere “in situazione” conflittuale. Così tutto rientra, senza drammi, nella dimensione proiettiva delle aspirazioni umane. Negli ultimi anni, con l’introduzione della scrittura-figura nei cicli plastico-pittorici, Luciana Matalon è pervenuta a una scelta di linguaggio “analogico” che prima, forse a causa del vorticoso connubio sperimentale fra tecniche e materiali, non si era prefissa di conseguire. Un linguaggio, s’intende, costruito sui fondamenti anteriori dell’esperienza. Ed è, appunto, il filtro depuratore dell’esperienza a concentrare, semio-logica-mente, gli elementi costitutivi che informano il linguaggio attraverso la sedimentazione (e lievitazione) dei medesimi alla “messa in opera” del pensiero visivo. Che corrisponde, in altri termini, all’omologazione dell’ “immaginazione dinamica” nel contesto strutturale dell’immagine. Immagine, dunque, come linguaggio del sentire nel vedere.

Così, ripercorrendo in sintesi trent’anni di operatività, fra concordanze e discordanze di merito, senza peraltro voler pregiudicare il merito cumulativo, possiamo “ritrarre” Luciana Matalon allo specchio delle sue stesse riflessioni … Introspettive. Sarà lei a condurci nelle “Cattedrali dell’inconscio”, invitandoci a un laico raccoglimento pervaso di rapimenti spaziali; ma la nostra amabile vestale gioca con le finzioni, interroga i misteri cosmici per viaggiare altrove, lasciandoci in sospeso; poi, all’improvviso, riemerge dalle “Archeologie del pensiero” (empaticamente, il suo e il nostro), dissimulandosi fra memorie e archetipi, miti e leggende, quindi, “Dagli scavi della memoria” viene rinnovandoci altre promesse, altre seduzioni liberatorie, o riparatorie, attraverso le “Archeologie della psiche”; e qui o altrove la storia continua…

Una storia di immagini, di riflessioni che alla fine ci riportano al principio, congiunta-mente. Ormai non possiamo più essere smentiti: altrove siamo gia vissuti, qui stiamo vivendo… a memoria. Forse è proprio in questa dimensione spazio temporale, comprendente l’insieme di tutti i punti di fuga e di ritorno simultanei, che Luciana Matalon ha voluto raccontarci la sua storia infinita, dall’arte nella vita alla … memoria della vita nell’arte. Per essere-nel-mondo, qui o altrove. Noi, mutanti scritture-figure del vissuto nel vivente allo specchio simbolico della realtà.

Mlklos N. Varga.