Lettera

Lettera
Carissima Luciana,
finalmente, dopo molti anni, abbiamo avuto la possibilità di rincontrarci. Io, soprattutto, ho avuto la possibilità ed il piacere di rivedere, in una ampia carrellata, la tua produzione artistica di un ventennio (tanti sono gli anni che datano la nostra amicizia, ricordi?) e di «conoscere» dal vivo le tue ultime opere. Le quali mi inducono ad una serie di riflessioni che voglio esternarti attraverso questa lettera. Ricordo che nell’autunno del 1969, presentandoti in una mostra a Taranto, commentavo le tue opere astratto-materiche realizzate con materiali plastici squarciati, ribollenti e grumosi rinvenendo in esse «quel senso di inquietudine spirituale, l’angoscia, che, secondo l’esistenzialismo più recente, sta al centro del problema del nostro destino». Gli stessi concetti esprimevo poi, nella primavera dell’anno dopo, nel testo del catalogo della mostra di Miami, in Florida, guardando «dietro le fenditure combuste — come spaccature della crosta terrestre da cui sembrano fuoriuscire laviche colate e come ferite martoriate dell’epidermide — o dietro le immaginifiche strutture d’una oggettività spaziale o di fantastiche realtà abissali».

Ho voluto rileggere quei testi oggi dopo aver visto la tua recente produzione. Sono forse superati? Non lo credo: datati sì, ovviamente, ma superati no. Perché rilevo che due elementi di fondo che avevo individuato nel tuo bisogno d’espressione permangono ancora oggi vivi e costituiscono in qualche modo i connotati peculiari della tua personalità artistica. Uno è l’angoscia, la quale è una sorta di risposta allarmata e sofferta dell’individuo alla constatazione della nullità del suo essere finito (ebbene, l’angoscia è un sentimento basato su di una energia tutta interna all’io, che lo scava o lo consuma come scavati e combusti erano i tuoi materiali plastici tradotti in linguaggio pittorico e plastico). Oggi, quella stessa quantità energetica la ritrovo nelle tue nuove opere; certamente essa ha mutato di qualità e sostanza, nel senso che non è più «incarnata» nell’ansia inquieta ma, al contrario, è trapassata direi nel suo opposto, vale a dire in un attivismo positivo che non guarda ora dentro le viscere della terra ma si innalza in direzione della dimensione sconfinata del cielo.

Un altro elemento che noto è questa volontà finanche caparbia di andare «oltre «, di superare gli schermi dell’apparenza, di cercare ad ogni costo, spasmodicamente pure, di impossessarsi dell’essenza la quale ieri veniva espressa dall’attitudine ansiosa di penetrare fino in fondo alle strutture più intime della materia mentre oggi è palesata dal desiderio di valicare i confini per immergersi nell’incommensurabilità dello sconfinato. Io credo che sia dettata, questa volontà, da quella porzione d’infinito che abbiamo in noi e che anela all’Infinito immenso che ci sovrasta come dice il filosofo Carlo Jaspers, dal bisogno di riconoscere l’essere totale nell’essere nostro, perché noi aspiriamo all’assoluto, ne abbiamo l’idea e tentiamo di raggiungerlo spostando continuamente l’orizzonte. Le tue variazioni linguistiche e tematiche costituiscono, dunque, lo «spostamento d’orizzonte » di Jaspers, alla ricerca sempre del medesimo obbiettivo, vale a dire dell’Infinito e dell’Assoluto che è altro da te ma che è anche dentro di te.

Le tue ultime opere, ti dicevo, sia pittoriche che plastiche, mi interessano molto perché mi intrigano, mi interrogano, mi provocano e dunque posseggono quel «quid» interrogativo e neutro che costituisce la qualità misteriosa dell’arte. Persistendo nel bisogno pressante di penetrare all’interno della dimensione infinita, i tuoi quadri appaiono come porzioni dell’universo, come frammenti di quella sinfonia armonica di superfici interminabili che sono gli spazi siderali, dove linee, punti, ellissi, grumi di materia cromatica espansa si inseguono immersi nel silenzio; oppure come lingue di terre costiere o come isole adagiate sopra le distese oceaniche, viste tutte dall’alto di una quota elevata, dove la geometria del mondo si palesa attraverso delicate e stupende grafie.

Nell’uno e nell’altro caso il tuo punto di vista risulta essere sempre interno alla prospettiva aerea dell’infinito ed è «spostando l’orizzonte», cioè guardando una volta sopra e una volta sotto di te, che tu entri visivamente nell’immensità uranica oppure plani con l’occhio sulle strisce di terre sottostanti. Sempre, però, tu risiedi nel cielo, in quella ierofania eterna che è ciò che sta sopra la terra, dove la necessità d’infinito dell’uomo colloca la trascendenza. Ricordiamo la testimonianza di quell’africano della tribù degli Ewe riferita da Mircea Eliade «Dove è il Cielo, ivi è anche Dio». Cara Luciana, tu, con la tua inesauribile immaginazione, ti sei addentrata nelle regioni superiori inaccessibili all’uomo, in quelle zone sideree, dimora degli dèi, ove albergano i principi divini del trascendente, della realtà assoluta e della perennità. Dove il tempo non scorre o ha altri ritmi; dove i rumori non giungono ed è possibile, però, percepire i meravigliosi suoni profondi di cui è ricco il silenzio. Hai varcato i confini del cielo, cioè della categoria dell’ “alto”, nella quale sei entrata in virtù della potenza inarrestabile della fantasia ed ora dall’alto tu guardi e dipingi quelle altre ierofanie che sono le terre emerse oppure guardi e pittoricamente racconti le tracce divine rappresentate dalle meraviglie uraniche.

E poiché ho fatto cenno alle grafie che tu trai dalle visioni aeree delle terre sottostanti o dalle combinazioni segniche con le quali si ordinano e si scompongono le geometrie celesti, ecco che mi sovviene come il tuo interesse per il segno sia antico, nel senso che ti è sempre appartenuto. Infatti, a ripensarle, le tue opere informali erano sì pulsanti di materia creativa, ma sulle loro superfici materiche giocavano intrichi di segni a formare trame ed orditi; così come del resto avveniva nelle serie delle «Cattedrali» e poi in quelle dei «Viaggi spaziali», delle «Foreste cosmiche» e cosi via. Il segno, voglio dire, è sempre stato un connotato distintivo del tuo lessico, sicché alla prospettiva materica della lingua informale tu hai sempre abbinato anche quella segnica. Ed oggi alla magia del segno ritorni usandolo come splendido gioco lineare (continuo o segmentato, a lungo tratto o a frammento minuto) che disegna le geometrie delle terre viste dal cielo oppure i punti e le linee delle sconfinate superfici d’Uranio.

All’interno dell’universo segnico accede poi, con una fortissima carica suggestiva, quel sistema di segni combinati che è la scrittura che tu hai usato con raro gusto in molte opere ieri e che oggi riusi sotto forma di alfabeto ebraico: lettere prodigiose ed arcane, queste ultime, le quali richiamano i misteri e le magie della Kabala, le saggezze degli antichi testi sapienzali, la sacralità dei messaggi profetici; lettere cariche di significati arcaici, simboli di storia, ierofanie anch’esse in quanto strumenti comunicativi propri del «popolo di Dio». I segni-lettere dell’alfabeto ebraico vanno a marcare anche le tue sculture, soprattutto quelle a stele o totemiche, che, innalzandosi verso l’alto (emblema di un’ansia di comunicazione e di comunione col Cielo), portano su, nella sfera celeste, il tracciato segnico della lingua dell’uomo, forse le sue preghiere oppure il racconto dei suoi meriti e delle sue colpe, delle sue virtù e dei suoi errori, del suo essere angelo e demonio, Gabriele e Lucifero, Dioniso e Titano.
Fra le tue sculture, poi, domina il tema dell’albero. Quanto ci sarebbe da dire, a livello simbolico, su questo fondamentale archetipo e sulla sua valenza sacrale: l’albero — abbinato alla pietra e all’altare — come microcosmo negli strati più antichi della religiosità; come immagine del cosmo; come teofania cosmica; come simbolo della vita e dell’inesauribile fecondità; come axis mundi e sostegno dell’universo; come simbolo di resurrezione e di rigenerazione; come relazione mistica con l’uomo. Albero dunque come ulteriore ierofania e perciò come sublime aspirazione verso la trascendenza alta ed altra (la stele ed il totem è sull’albero che si modellano come elemento di congiunzione che dalla terra conduce al cielo, simbolo fortemente ierogàmico).

Mia cara Luciana, te lo ripeto, le tue ultime opere mi hanno molto impressionato perché si saldano con evidente chiarezza filologica alle tue precedenti esperienze linguistiche (nonostante lo «spostamento d’orizzonte»); perché segnano, a mio giudizio, un momento di alta maturità espressiva; perché — con i meravigliosi «atleti dello spirito», con le stele, i totem e gli alberi bronzei — ti sospingono dentro l’affascinante ed inebriante dimensione dell’infinito. Che è la dimensione vera dell’arte, regno del paradosso, dove si vive felici anche quando le pene e l’angoscia torturano il corpo, dove lo spirito canta anche quando gli occhi lacrimano e il cuore si spezza.
Con stima, affetto e tanta amicizia

Armando Ginesi
Settembre 1989