Tracce-segni antichi alfabeti raccontano

Tracce-segni antichi alfabeti raccontano

Prima venne la città. Poi da qualche parte fra il Tigri e l’Eufrate o in qualche angolo remoto intorno al monte Ararat o al fondo di un deserto allungato verso il Golfo Persico, o forse in una spiaggia appoggiata alle rive del Mar Rosso, venne la scrittura. Le scoperte archeologiche degli ultimi anni concordano nell’associare la presenza della città a quella del testo e nell’attribuire l’invenzione di entrambi al più remoto passato, in quanto strutture consustanziali ai primi fondamenti dell’organizzazione umana.

Luciana Matalon, sin dagli avvii del suo lungo, intenso e coerente percorso creativo, ha manifestato il bisogno di guardare così lontano, risalire così indietro lungo i sentieri di una sorta di vastissima memoria collettiva aperta verso il passato remoto. E in questo cammino di immagini, di riflessioni, di visioni, di spazi onirici e fantastici, ha incontrato la città intesa come paesaggio basilare, spazio architettato cioè fatto cultura, dimensione abitata, coltivata, impostata secondo un senso e un pensiero possibile. La mostra attuale non ha la pretesa di circoscrivere il vastissimo campo d’interessi di Luciana Matalon, di mostrare tutti i territori cui la sua libera vena fantastica le ha dato accesso.

Qui invece si è cercato, forse per la prima volta, di presentare nella giusta luce col giusto risalto quell’ampio filone di ricerca che si è sviluppato ininterrottamente per oltre un ventennio, costituito dai Viaggi nella memoria, Scavi, Diari e Archeologie: cicli, tutti, che rientrano in una grande tematica, forse la più importante nella complessa produzione dell’artista, un filo di Arianna che corre lungo il suo intero itinerario creativo e ha contribuito non poco a conferire al suo lavoro una peculiare cifra stilistica. Memoria, innanzitutto, perché? Borges in uno dei racconti più noti (Funes o della memoria) non ha esitazioni a descrivere la funzione del ricordare come una condanna che l’eroe subisce in modo totale, assimilando in sé tutto quello che incontra, tutte le foglie di tutti gli alberi splendenti nel mattino, tutte le pagine di tutti i libri. Altrove, è ancora Borges a sottolineare l’inestimabile valore dello sguardo, anche lo sguardo inconsapevole, per conservare nell’esistenza le cose e le rovine. Il passato, in altre parole, mantiene vestigia, resti e forme attraverso il tempo finché esiste un testimone che le raccolga e conferisca loro senso. Non si tratta, necessariamente, di filologia: il testimone è piuttosto poetico, inevitabilmente poetico, come quegli anonimi cammellieri che guidarono gli archeologi sulle rovine di Saba, prima che un’altra tempesta di sabbia le cancellasse un’altra volta. Luciana Matalon si assume continuamente il compito leggero e difficile di incarnare il testimone poetico, senza preoccuparsi di classificare in termini sistematici la lingua, o le lingue, continuamente salvate dal suo lavoro, ma piuttosto prendendosi cura di ogni traccia e depositandola teneramente nell’immagine, in un’immagine dopo l’altra. Jung avventurosamente ci insegna che il ricordo non ci appartiene, non appartiene a noi soltanto ma si lascia condividere discendendo lungo la misteriosa via degli archetipi, all’improvviso riguardandoci, investendoci anche di un senso che non sapevamo di avere, di poter riconoscere così spontaneamente.

Appoggiandosi a Jung, Luciana Matalon ricorda con facilità molto più di quanto la sua esperienza personale non le possa restituire, fa proprie le suggestioni e i simboli di mondi e civiltà lontane e ricomprende il tutto in una tessitura di segno e di colori che la sua sensibilità, il suo gusto e la sua cultura di volta in volta apprestano, con la pazienza e l’amorevolezza di antiche tessitrici. Ma perché la città, in tutto questo? Per due ragioni: in primo luogo va detto che dietro all’apparente libertà, l’apparente leggerezza delle composizioni di Luciana Matalon c’è sempre un’architettura, una necessità e un piacere di costruire l’immagine in base ad un preciso principio di equilibrio e di armonia. La natura, come si diceva, non basta, l’invasione del passato in una coscienza produce disagio se non addirittura caos.

L’artista organizza le proprie opere in base a un ordine non rigido o geometrico, ma di volta in volta concepito per valorizzare i materiali di partenza. E poi, il paesaggio, la città, affiora come una specie di inevitabile luogo in fondo alla rappresentazione, lontana ma stabile dimora di cui l’artista recupera forme e direzioni, oppure tenta di ipotizzare una mappa, con lo stesso spirito dei corsari che raccontavano luoghi e chiavi del tesoro nascosto in pochi segni tracciati su foglie di palma e nascosti nella sabbia. Alle spalle di Luciana Matalon si intuisce sempre una specie di naufragio, oppure di lungo e lento dilavare, di fronte a cui l’arte si pone come un bastione, un argine, un alveo per trattenere e uno strumento per decifrare tutto quello che è stato incontrato, attraversato, forse soltanto intuito.

Per questo non è improprio dire che il lavoro di Luciana Matalon è fondato tutto su una ricerca intesa come immersione in una dimensione primigenia, archetipica, supremamente necessaria, in una parola, ricerca di una verità personale e cosmica insieme. Il bisogno di un approfondimento così insistito e totalizzante in direzione dell’essenza non soltanto artistica ma esistenziale, e non soltanto esistenziale ma in qualche modo biologica, cosmica, è uno dei temi su cui i critici che nel tempo si sono occupati dell’artista (dall’amato Roberto Sanesi a Ermanno Krumm a Alberico Sala a Miklos N. Varga) hanno insistito di più. L’artista sembra cercare una forma di vita intima che ci ricompone ai primordi del presente. E per farlo ha intrapreso un viaggio difficile, trasformato nel tempo in una prassi di cui il lavoro si alimenta, tanto da risolversi esso stesso in un intrinseco viaggiare, della consistenza metaforica sì, però mai completamente avulsa dal proprio referente esistenziale. Una prassi, si diceva, che col passare del tempo ha acquisito possibilità nuove e sempre più ricche: la Matalon si comporta da viaggiatore nel paesaggio attraverso i luoghi, attraverso i tempi, attraverso le immagini e il linguaggio. Incontra, sottrae reperti, frammenti: oggetti o idee o parole che valgono la pena di essere ricordate, inglobate nel lavoro, un intero universo con le sue inesauribili variazioni, geografiche e poetiche. Naturalmente, però, Luciana Matalon non ha agito per conto suo, indifferente o ignara del contesto e dei contesti della cultura europea a lei contemporanei e vicini per affinità linguistiche ed elettive: l’artista lavora all’interno dei centri veramente vitali dell’elaborazione di linguaggi espressivi, ed è sensibilissima a cogliere le ragioni di un loro esaurirsi o il senso di un loro trasformarsi, senza peraltro aver mai rinunciato alla progressiva elaborazione di un suo peculiare linguaggio, di una sua personalissima cifra stilistica, attualmente dispiegata nel ricco paesaggio di opere presentate in permanenza nella fondazione milanese.

Il suo itinerario pubblico, negli anni Sessanta, si è aperto all’insegna di un’intensa, quasi implosiva, densità psicologia, di una spazialità complessa, «elastica», pittorica, plastica, ambientale (l’artista infatti spazia con notevole versatilità della pittura, all’installazione, dalla scultura al gioiello): cioè definita da tensioni lineari fuorvianti rispetto ai principi abituali di percezione e organizzazione dello spazio, e invece da variazioni, ombreggiature, corruscamenti cromatici. Nessun riguardo alla tradizionale dicotomia di astrazione e figurazione; ogni opera infatti, sin da quegli anni, è sia astratta sia figurativa. Tentare di leggerla in un senso o nell’altro è forzoso: questi quadri e queste carte non rappresentano ma evocano fortemente luoghi, materie, situazioni e ricercano una relazione fondante e sostanziale con il «piano umano» pur senza rinnegare l’indagine su spazialità nuove, spazialità impossibili, dove a poco a poco incominciano a depositarsi, a decantarsi e a ricombinarsi frammenti di memoria (come accade per esempio nel recente Viaggio nella memoria del 2002). In queste opere lo psicologismo, per così dire, materico ed «organico» (non a caso Krumm riferisce a Burri gli addensamenti di materia, gli strappi e le lacerazioni che Luciana Matalon spesso si concede) i grumi di materia corrugati nello spazio e carichi di tensione espressiva, tendono a velarsi di un colore trasparente che fa emergere figure dilacerate e innaturali, quasi meteore sospese fra segno e colore o frazioni di un racconto nuovo, incompiuto e tutto interno alla pittura; oppure si rapprendono in un misto di chimerico e mineralogico. Per questo lo spazio di Luciana Matalon è, insieme, fisico e allusivo, sicuramente ambiguo e sempre denso di nuovo, possibile altrove, che talvolta si solleva addirittura nella tridimensionalità portando a concretezza tangibile il «racconto» di questa misteriosa età dell’oro, del ricordo e della sensibilità.

Gli oggetti/sculture della Matalon sono soprattutto alberi, globi, città oniriche, totem sottili e slanciati verso lo spazio aperto, invenzioni libere e fantastiche che talvolta confinano con il design (per esempio le recenti Space-chairs che non a caso l’artista definisce «sculture da vivere»), altre volte si risolvono invece in sottili filamenti di bronzo, frammenti di una natura inventata, di una vegetazione fra i cui rami si annidano città magiche, architetture fantasmatiche o giochi di parole dispiegati in vortici e spirali; parole illeggibili ma sempre piene di senso. Non c’è contraddizione e non c’è distanza fra le varie possibili forme in cui il complesso progetto della Matalon si articola: i bronzi e gli alberi, esili ed eleganti, sono un’altra possibile faccia di carte o dipinti, e contengono già la preziosità e la raffinatezza dei gioielli. Totale coerenza, insomma, anche se è forse proprio nella pittura che si deve rintracciare l’autentico «luogo d’origine» del lavoro della Matalon, perché è nella pittura, sulla superficie (che fra l’altro può dilatarsi su dimensioni davvero molto vaste,rimandare, quasi, un proprio possibile completamento da una parete all’altra e da un pannello all’altro) che meglio l’artista elabora in termini genericamente lirici il suo prediletto paesaggio post-naturale e surrealistico insieme, reso flessibile dalle continue interferenze della memoria, sempre presente come imprescindibile componente sotterranea consustanziale a questo operare, strumento che lavora sentimentalmente per infrazioni, sottrazioni minime oppure macroscopiche, ma tali da trasformare di volta in volta l’atmosfera dell’opera.

L’operazione della Matalon, in altre parole, è metamorfica e metaforica più che magica, irrealizzabile senza la profondissima fedeltà che l’artista porta a se stessa e al proprio desiderio di trasgredire continuamente tutte le leggi della rappresentazione troppo costrittive e articolare con piena libertà una trama di relazioni più totalizzante. Non a caso in questo universo poetico il «quando», inteso come una determinazione temporale precisa e circostanziata è assolutamente irrilevante. Il tempo di Luciana Matalon potrebbe essere favolosamente e misteriosamente anteriore alla storia, ma il suo ritmo è invece profondamente attuale, cadenzato su linguaggi esplicitamente ed esclusivamente contemporanei. Per esempio, non si insisterà mai abbastanza sull’importanza del surrealismo, o meglio della dimensione surrealista in questi lavori, poiché proprio da questa grande sorgente di cultura e di pensiero deriva la facilità a coniugare l’aspetto onirico,quello paesaggistico, quello puramente evocativo, la possibilità di raccontare senza preoccuparsi della trama, di combinare simboli e immagini, di attraversare in piena libertà spazi implosi e profondissimi, suggestioni prese in prestito dal mondo vegetale, improvvise assenze e altrettanto improvvisi ritorni che però, è importante dirlo, non rimangono residui letterari ma si risolvono tutti nella piena pregnanza dell’immagine. Sono cose da vedere, in altre parole, non da leggere. E poi, il grande mondo della parola e della scrittura, cui Luciana Matalon ha sempre attinto a piene mani, collegandosi così alle molteplici esperienze di pittura/scrittura elaborate dalle avanguardie e dalle post-avanguardie. Nel suo lavoro però l’attenzione non va al significante ma all’aspetto estetico, al «tutto pieno» della scrittura che proprio in quanto illeggibile conserva il fascino di testimonianza di un mondo tutto da ricostruire.

Le potenzialità di questo utilizzo della scrittura sono inesauribili perché è la scrittura stessa qui a farsi luogo, anzi non-luogo abitato dai segni della conoscenza, materiale a tutti gli effetti non apposto a-posteriori, in una trama già preparata di forme e colori e segni, ma totalmente ricompreso e partecipe dell’atmosfera di ogni carta e di ogni dipinto. Si potrebbe parlare, allora, di un «luogo dei luoghi» destinato all’elaborazione poetica, geografia dell’immaginario, arricchita di aspetti alchimistici ed esoterici ma sospesi anch’essi fra metafora e fisicità, e risolti nell’incanto della rappresentazione.

L’artista riconosce nei diversi materiali e nelle molteplici fonti di ispirazione dei veri e propri alleati, da sottoporre poi ad una complessa e rischiosa procedura di armonizzazione semantica, il cui obiettivo non è il tessuto narrativo compatto, ma la compresenza in una complessità fondata soprattutto sulla complicità delle parti. Il fuoco, alla cui presenza metaforica la Matalon ricorre spesso nelle Lacerazioni più materiche e drammatiche, è amato in quanto catalizzatore di una commistione fisica fra gli elementi, mentre quel colore sottile e garbato e trasparente, presente in molte altre opere, ci riporta al bisogno di smaterializzare e di far prevalere un aspetto aereo, volatile, musicale della rappresentazione. Presenza e assenza, lontananza e vicinanza convivono e si completano vicendevolmente, come due componenti dialettiche che esaltano le parti nella loro reciprocità e sono entrambe già corpo, appartengono ai tessuti vivi dell’opera. Scavi, allora, archeologie, memorie e antiche tracce: Luciana Matalon ha decantato qui la parte più preziosa dalla sua cosmogonia, approfondendo, opera per opera, un’antica fedeltà a se stessa che le ha consentito di addentrarsi fino agli «organi vitali» di una materia che sa già essere pittura, di una tecnica di orientamento che è già discorso poetico, di un linguaggio che è già opera. E ha individuato così la sua, assolutamente inconfondibile, strada.

Martina Corgnati
Settembre 2002